Fra le figure femminili più inquietanti nella storia del Monferrato emerge quella di Valentina Fraccio, l’untrice di San Giorgio. Fu lei la protagonista principale del maxi processo che si svolse nel 1530 contro quaranta persone accusate di diffondere volutamente il morbo pestilenziale. Il processo si tenne in parte nel castello di San Giorgio Monferrato e in parte a Casale nel giugno di quell’anno ed ebbe la durata di un mese.
Valentina Fraccio, l’untrice di San Giorgio
Valentina rivelò fatti dettagliati e i nomi dei responsabili senza essere sottoposta a tortura, prassi all’epoca compresa nella procedura processuale: non soltanto era convinta di essere nel giusto, ma anche che sarebbe stata salvata dalla condanna capitale grazie all’intervento di un misterioso amico, come le avevano fatto credere i suoi complici.
L’antefatto del processo, uno dei più imponenti della storia per numero di accusati e testimoni, fu un precedente processo istruito nel maggio dello stesso anno a Casale a carico di sei imputati. In quell’occasione, gli imputati, tutti poi condannati a morte, indicarono nomi e cognomi di altre persone coinvolte e sino ad allora non sospettate della diffusione del contagio. Le loro dichiarazioni portarono alle successive indagini e verifiche, sino al processo di giugno.
La causa fu gestita dal tribunale marchionale, sul quale sovrintendeva Anne d’Alençon, reggente per il Marchesato. L’attribuzione della competenza al tribunale marchionale derivava dal fatto che molti degli imputanti erano funzionari e dipendenti di istituzioni e uffici del governo del Marchese, quali l’Ufficio di Sanità e il Lazzaretto costruito a Casale nel 1522.
Furono esclusi dall’iter tribunali religiosi, sebbene di tanto in tanto dalle testimonianze emergessero accenni al Diavolo. L’esclusione non fu dovuta all’assenza in Casale di un Tribunale dell’Inquisizione, che sarebbe stato istituito soltanto nel 1545, le funzioni del quale avrebbero potuto essere comunque svolte da altri Tribunali della Fede già esistenti: la marchesa era consapevole che il problema riguardava persone appartenenti a uffici del Marchesato, quindi le responsabilità erano di carattere laico e non attinenti alla sfera religiosa o del sovrannaturale.
La cattura e il processo a Valentina Fraccio
A presiedere il processo su incarico di Anne d’Alençon fu Giovanni Francesco Necco.
Valentina Fraccio venne arrestata nella sua casa di San Giorgio Monferrato. Benché tentasse di sfuggire alla cattura dall’unica finestra della stanza che era sia cucina sia camera da letto per lei e per il marito, Andrea, le guardie della Marchesa riuscirono a catturarla e a trasportarla nelle prigioni del castello.
Qui Valentina iniziò subito a raccontare i particolari di quello che potrebbe essere definito un “mercato della peste”. A procurare il siero contagioso erano monatti, becchini, addetti alla pulizia del Lazzaretto e alle cure degli appestati. Il siero era prelevato dai bubboni dei cadaveri e venduto agli untori.
Gli untori ne facevano uso per vendicarsi di persone che li avevano maltrattati o per invidia o per gelosia. Il contagio era provocato tramite la creazione di una mistura che comprendeva il siero pestilenziale, olio d’oliva e trementina. Con l’intruglio ottenuto gli untori toccavano i luoghi frequentati dalle vittime o gli oggetti e gl’indumenti da esse utilizzati. Valentina rivelò di aver partecipato con altre persone, delle quali fece i nomi, all’esumazione di un morto appestato sepolto nelle campagne di Casale per procurarsi il siero, senza doverlo comperare dagli addetti al Lazzaretto.
Rivelò anche di aver unto, sempre in compagnia di alcuni uomini, le porte e i muri del convento di San Domenico a Casale. A conferma dell’effetto ottenuto, la donna elencò le persone che s’erano contagiate di conseguenza alla sua azione e che erano morte, insieme con i propri famigliari.
Per evitare di contagiarsi a propria volta, gli untori portavano al collo un ciondolo contenente arsenico e masticavano colchico, che Valentina stessa confessò di andare a raccogliere nei prati e di saper lavorare in modo che rendessi immune dal contagio chi lo teneva in bocca senza avvelenarlo, essendo il colchico molto tossico.
A fronte delle sue rivelazioni e di quelle degli altri imputati, tutti sottoposti a tortura, il tribunale stabilì la pena di morte per trenta persone. Le modalità dell’esecuzione, che si svolse a Casale, non sono state tramandate.
Un racconto del mio libro “Donne fuori dalla Storia – Voci di un Monferrato da scoprire”, Circolo Culturale I Marchesi del Monferrato, Alessandria, 2021, è dedicato a Valentina Fraccio.
L’autrice
Cinzia Montagna è nata a Broni (PV) e vive fra Oltrepò Pavese e Monferrato. E’ laureata in Teoria e Storia della Storiografia – Facoltà di Lettere, Università degli Studi di Pavia. E’ giornalista professionista e collabora dal 2015 con Patrizio Roversi come coautore di programmi televisivi, con Roversi e Syusy Blady in prodotti editoriali video, con Bruno Gambarotta in eventi di carattere culturale e dal 2007 con Paolo Massobrio nell’organizzazione di “Golosaria tra i castelli del Monferrato – Rassegna di cultura e gusto”, della quale è referente per il territorio astigiano. A partire dal 2012 ha pubblicato saggi e romanzi che hanno per protagoniste figure femminili “minori”, in particolare nella Storia del Monferrato, la maggior parte editi dal Circolo Culturale “I Marchesi del Monferrato”.
Foto di copertina: Anduma!